marco valenti scrive

marco valenti scrive

11 novembre 2016

Esagerazioni sulla resilienza




Si fa un gran parlare del termine resilienza, mutuato dal mondo della meccanica, e lo si propone come valore in ambiti totalmente nuovi.
La resilienza di una città, o di un popolo, o di un individuo.
La capacità di resistere alle sollecitazioni, alle avversità, e quella di adattarsi alle mutate situazioni.

Tutto questo è considerato sempre più come qualcosa di positivo, di meritorio, e si moltiplicano articoli, saggi e convegni che lodano chi è resiliente e invitano tutti alla resilienza.

Francamente, nella migliore delle ipotesi, siamo di fronte ad un fraintendimento.


A dirla brevemente (certamente malamente se sono io a parlarne) è improprio e a mio avviso sbagliato. Un abbaglio gigantesco.

Proviamo a metterla in un altro modo? 
Si sta dicendo che è bravo chi sopporta, chi tollera, si adegua a situazioni più pesanti di quelle precedenti.

Ora io capisco che sia utile essere paziente, tollerante, aperto, di larghe vedute.

Mi può star bene che faccia male alla salute essere livorosi, serbare rancore, sbuffar sempre e protestare su tutto.

Però…

Pensateci un momento.


Suvvia!

“State buoni se potete” lo diceva San Filippo Neri e la capacità maggiore di adattamento la hanno topi e scarafaggi. 
Essere resilienti non è resistere (a Roma si direbbe che è “abbozzare”): la resistenza è un’altra cosa.

Si resiste ad un sopruso, ad una angheria, ad una offesa, però poi ci si organizza e si reagisce.

Magari non si deve per forza fare rivoluzioni ma si reagisce per cambiare quello che ci ha ridotti a dover essere resilienti. 
Si combattono quelle mutate condizioni attorno a noi che ci fanno mancare l’aria, ci costringono,  ci fanno  star peggio.

O no?


A me questo elogio della resilienza negli umani mi puzza di sonnifero e, anche se certamente non sono tra i più svegli, invito tutti a rifletterci e a vigilare.


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